Il Padre ed il figlio… della poezia
da Visar Zhiti
Prefazione del libro “I muri del crepuscolo” di Lazër & Jozef Radi
Chi è il padre della poesia? Cielo, monte di Parnaso, dove avevano pernottato le muse come in un albergo moderno degli artisti, o realtà, il pensiero della liberta, del dolore, dell’amore, o la creazione di una seconda realtà che più di tanti è intera?
E la poesia chi ha per figlio suo? Di nuovo il dolore, la liberta, le statue di marmo dell’Apolone, la tua ribellione, il fascino, il riposo, la seconda realtà, che vuol sfidare il primo?
E forse chissà il padre diventa figlio, qualche volta il figlio esce e diventa padre, così come i nomi nella stirpe, dove si rianimano i morti e qualche volta perdono tutti due e rimane solo la poesia, il quale li basta se stessa come un sospiro, che improvvisamente diventa fiore, oppure come il sorriso, che all’improvviso diventa fiore, come la parola che improvvisamente diventa fiore, o come il fiore che diventa parola, sorriso, sospiro.
E le ferite? Non somigliano loro più di tanto con i fiori? E i brillanti? Perché la nostra poesia presenta pieno di brillanti il guerriero ferito? Nel frattempo che la stessa poesia è la ferita, da dove lei viene, la stessa che lo crea e il poeta non è nessun altro che la mentalità permanente della ferita, per primo di se stesso.
Queste cose stavo pensando quando leggevo le poesie dei Radi, sotto due nomi: Lazër e Jozef. Il padre e il figlio. E non lo so perché mormorava qualcosa come una preghiera: Nel nome del padre e del figlio e dello…
Tutto questo che io ho letto era una santità, cosi spiegabile quanto non si può spiegare mai.
– Che cosa li conveniva a loro la poesia – può domandare una voce brutale, – frattanto che a loro mancava il pane e la libertà? E non solo questa, ma quando la poesia li rischiava di più a loro, padre e figlio, la vita, il giorno, l’angelo, la notte, la fortuna, il diavolo?
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Lazër Radi ha passato una vita nel carcere e nel campi del internamento, nel fango infernale della dittatura. Anche se lui era laureato in giurisprudenza a Roma (l’appunto, la giustizia gli mancava a lui e la sua Patria), era giornalista, creatore, studioso, amico di Migjeni, patriota anche quando ruzzolava nei abissi, e si sbattezzava nelle sfide del tempo ecc. ecc., la violenza lo allontanava dalle lettere e lui da loro non si staccava come un uragano che ti gira intorno.
Nonostante tutto la sua poesia non è distruzione, né anche maledizione. Narrazione calmo, che io volevo dire, quasi monotone che ti ricorda le stoviglie che noi mettiamo in casa per raccogliere l’acqua che goccia, in un giorno d’inverno.
In una casa così, che gocciolavano solo guai, crepuscolo, nella periferia delle campagne e delle gradi afflizioni, è nato Jozef. E non solo il nome, ma anche il suo fisico ti ricordano qualcosa del martirio di Cristo.
E nato internato e ha cominciato a lavorare da bambino nel fango obbligato che gli aveva lasciato suo padre. Perché non gli aveva propenso qualcos’altra il padre Lazer a lui?
E la Poesia? Anche se suo figlio non poteva fare l’università o di aver tempo di studiare, lui continua a scrivere poesie. Ha tutta la vita che scrive.
Chissà forse continua lì dove gli a lasciato suo padre (infatti anche suo padre continuava a scrivere) o dice le cose che suo padre non può dire. Forse adempia il pegno di suo padre o lì realizza se stesso che li avevano fatto mancare o protesta silenziosamente. Forse…ma più importante è che scrive bene, in una maniera rattristante, con generosità, pieno di riflessi di luce e dovevo citare che è moderno. E, per paradosso, nel paese più primitivo fino alla brutalità assassina.
Questo libro, le poesie del padre e del figlio, sono una testimonianza oltre emozionante della invincibilità del uomo e dei suoi valori. Loro sono un mosaico bello, che fa tremare, sotto il fango del tempo che è passato. Così insieme, padre e figlio, sono più significativi. Sembra che si danno uno all’altro le ferite, si, così come il carbonifero del focolare che i montanari danno uno all’altro per accendere… le sigarette. No, no la poesia.
Tirana, 29. 03. 1993