Un pensiero al volo sul romanzo autobiografico di Visar Zhiti
Sulle strade dell’inferno – La mia vita nel carcere di Spaç
da Arben Borshi
Tradotto da Matteo Mandalà – Edito da Besa Muci
Giorni fa, nella presentazione del libro scritto dall’autrice albanese Erida Petriti in italiano, nella Fiera del libro a Roma, parlando con gli interlocutori, (tra i quali Rando Devole), della letteratura albanese tradotta in italiano, venne fuori un discorso assai importante da parte di Anna Lattanzi, esperta critica letteraria italiana e diffonditrice della letteratura albanese in Italia: l’Italia può contare su una rosa esigua di traduttori validi e un ampio numero di traduttori improvvisati. Non è questione di produzione libraria che è sin troppo corposa, ma di traduzione spesso di scarsa qualità!
Mi corre l’obbligo ricordare, che per mezzo secolo, gli italiani come tutti gli altri stranieri, si sono dovuti “accontentare” solo con le traduzioni dell’unico scrittore, nonché l’usignolo del partito terrorista comunista, Ismail Kadaré, che guarda caso, nei suoi libri non esiste neanche il nome del traduttore. Questo spiega in parte il terrorismo dello Stato, in quanto il traduttore Jusuf Vrioni era un detenuto politico, al quale venivano recapitati i romanzi da tradurre obbligatoriamente, come contropartita per non andare a lavorare con pala e piccone.
Aldilà delle amnesie volute o meno, oggi, a 31 anni dopo l’implosione del regime criminale comunista in Albania, bisogna ammettere che malgrado una certa libertà raggiunta, scarseggiano le traduzioni dei libri albanesi in italiano. E questo va a scapito dell’informazione, della conoscenza della vera cultura e letteratura albanese. Ma quello che è più importante, questa letteratura di vari autori, porta davanti al lettore la vera storia del nostro paese, quella storia intenzionalmente celata dietro una sporca propaganda, atta a nascondere la tragedia e a trasformare la verità.
Questo libro s’inserisce nella schiera dei libri che descrivono la più importante testimonianza sulla tragedia del XX secolo in Albania sotto la dittatura del proletariato, a fianco dell’altro libro-testimone: “Il sangue di Abele-vivi per testimoniare”- di padre Zef Pllumi, ex detenuto politico come Visar, (la sua trilogia non è stata tradotta completa ma solo la prima parte). A mio avviso, Zhiti, essendo stato egli stesso un prigioniero politico nella prigione di Spaç, descrive con minuziosa precisione l’inferno del carcere, uno dei tanti che componevano l’Arcipelago dei Gulag albanesi. Va riconosciuta la straordinaria capacità di raccontare con limpidezza la vera vita in galera, i meccanismi perversi del mondo carcerario nelle gallerie delle miniere dove veniva estratto il minerale del pirite, la psicologia che governa ciò che resta dell’uomo sottoposto alla prova estrema della sopravvivenza.
È un vero inferno, la verità dell’uomo che subisce la sopraffazione dal regime, la violenza esasperata nelle condizioni ambientali mostruose. Un infinito dolore che si delinea nelle pagine del libro. Con quale facilità l’uomo si dimentica di essere uomo, e annichilisce ogni speranza, ogni resistenza, ogni sentimento. La vita di un detenuto nel carcere di Spaç, come in ogni altro nell’Arcipelago dei Gulag albanesi, vale men che niente. Bastava avvicinarsi alla rete di filo spinato, ed eri riempito di pallottole.
Dopo aver attraversato tutti i cerchi dell’inferno di Spaç, Zhiti trova la forza d’animo per ricominciare a essere una persona, non più un detenuto senza futuro. La sua opera narrativa rispecchia una realtà impietosa, cruda ma vera, delle disumane condizioni dei detenuti politici nelle caverne delle carceri del regime criminale comunista.
“Molto vicino a me si udì un crepitio. Secco. Di arma? Si, si, il fucile automatico della guardia di fronte. La maggioranza saltò giù dal letto mentre si senti una voce: -“I proiettili hanno colpito la carne!”
Uscimmo a guardare fuori dalla finestra. Altri erano apparsi sui balconi e sulle porte dei due edifici grigi, alcuni con lunghe mutande bianche e con camicie colorate. Nella stanza vi erano anche quelli che non si mossero, ma si girarono dall’altra parte per continuare il sonno interrotto per alcuni istanti dalla solita raffica di proiettili.
-Che cos’è?
-Guarda laggiù…
-Dove, dove?
-Nel secondo recinto, ecco…
Un uomo si torceva nella pozza del suo sangue….sì, sì, l’avevo visto qui…s’era seduto irrigidito con un tremito costante ma spaventoso, e a volte girava la testa secca come legno verso di noi e a volte di là, verso le guardie salite sulle schiene dei mostri, con le armi pronte a svuotare di nuovo su di lui, qualora si fosse spostato tra i due recinti di filo spinato… Il detenuto arrotolò la mano nel sangue che si spargeva, la sollevò arrossata davanti ai suoi occhi sconvolti, la vide, la guardò e sbiadì sempre di più.
-È quello di Valona…!
-Che cosa, voleva fuggire cosi, nel bel mezzo del giorno?!
-No, no! Era molto turbato.
-Voleva morire.
La guardia gridava: “Fermo”! – e lui determinato saliva sul filo spinato, lentamente come in un incubo…” ti sparo!…- urlava il soldato, ma il detenuto scendeva dall’altro lato e strisciava tra il filo spinato del secondo recinto, mentre il soldato avvertiva con voce inquieta:”… ti devo sparare, non posso fare altro! Fermati! Torna indietro!”- e gli scaricò la raffica di proiettili sulle gambe. L’uomo stramazzò. Sentiva caldo immerso nel suo sangue. Strofinò la mano in quello stagno rosso di vita. Guardava le dita che vibravano. Erano le sue. Anche il sangue. Era davvero vivo e non lo sapeva. Ma ora, colpito a morte, se ne rese conto. È meglio vivere. Tutto svaniva. La prigione…
……………………….
Le guardie erano pronte con il dito sul grilletto dell’arma e l’uomo ferito, attraverso il dolore e il sangue, spinto dall’istinto, stringeva le ferite con le mani, per fermare il più possibile il flusso. Per salvare quel pezzo residuo di vita, anche se prima nell’intento di perderla era stato lui ad andare incontro alla morte. Era insopportabile. Cercava i buchi nel suo corpo.”
……………….
Bisogna sottolineare che, Zhiti è anche un poeta, e per le sue poesie fu incarcerato e condannato con 10 anni di galera. Come se non bastasse, a infierire sul poeta, furono anche gli “inquisitori” del realismo socialista, “i comandanti dell’artiglieria pesante del partito”(come piaceva chiamare gli scrittori il compagno Lenin, e qualcuno di questi è ancora in vita!) i quali stesero un’analisi politica dell’opera poetica, secondo i canoni marxisti-leninisti, analisi questa che aumentò la “colpa” e di conseguenza la condanna di Visar Zhiti. A un certo punto del libro, l’autore scrive:
“Nel frattempo grazie ai giornali vengo apprezzato. E all’improvviso, per questa ragione, finisco in prigione…. Nell’interrogatorio, ammanettato, rinchiuso, in solitudine compongo poesie, mnemonicamente, come mai avevo fatto prima. In prigione riesco a trascriverle e a trovare il loro mecenate.”
Ma questa condanna, come si evince dalle sue parole, non fermò la composizione delle poesie dell’autore alle condizioni di un detenuto, in mancanza intenzionale di matite e lettere per scrivere. Infatti, Zhiti dovette ripetere a memoria le cento e passa poesie composte, per non scordare nessuna. Solo più tardi, alla conquista della libertà, ebbe la possibilità della pubblicazione delle stesse.
Mentre nel mercato internazionale dei libri, incontriamo autori albanesi che raccontano delle fantasticherie in salsa filosofica marxista-leninista, dello stesso periodo vissuto dallo scrittore, che cercano deliberatamente a deviare il pensiero verso una valutazione benefica di quel regime criminale, la narrazione di Zhiti ci trasporta nella vera realtà della vita dentro alle caverne comuniste.
Un altro frammento del libro narra il modo come il bombardamento ideologico comunista, veniva praticato fin dalla tenera infanzia. Il testo mostra tutta la crudeltà con la quale, attraverso i media e i libri del regime, si forgiavano le menti innocue dei bambini, trasformandoli nelle premesse del “uomo nuovo”, l’opera più grande del partito:
“Vlash P. di Kruja rimase deluso quando il figlioletto, dopo l’incontro con la famiglia, disse a tutti: – Zio poliziotto, chiudi il cancello perché papà non scappi!
Ridete voi, ridete, ma non è uno scherzo, guardate, hanno rovinato i nostri bambini. Li hanno trasformati in proprietà dello Stato. Uno stato pedofilo- dissi.”
La dittatura, pensavo (anche in albanese, maledizione, è un nome femminile), dopo aver condannato per stregoneria coloro che sapevano chi erano, non ha lasciato che raggiungessero il loro obiettivo, li ha fermati prima che iniziassero, li ha dissolti come un niente, neutralizzati inutilmente, massacrandoli, per così dire, con fredda pacatezza. È stato il grande aborto del probabile, del potenziale, il più terrificante. La loro assenza ha spinto la società ad assumere questo fatto come alibi morale, anche se inutilmente. Non si può sommare il nulla al nulla. Ma se alle dittature non rimorde la coscienza quando uccidono ciò che è, figuriamoci quando distruggono ciò che ancora non c’è. Ciò dovrebbe causare sofferenza, uno stato di disfacimento dell’immaginazione umana per l’immensa perdita di coloro di qui non si conosce quale contributo potevano dare: arte eccelsa, scienza, genio, visioni, ideali, istituzioni, cosmogonie. Certo, qualora fossero stati lasciati in vita. La tragedia di essere pre-condannato, cioè di non essere realizzati, anche senza venire uccisi, è la tragedia delle tragedie, strozzata: una morte paurosamente universale.
……………
Vorrei segnalare questo libro, come una testimonianza della feroce dittatura comunista in Albania. Nulla ha di più, a mio avviso, il libro di Varlam Shalamov; “I racconti di Kolyma”, dove traspare la stessa tipologia del terrore comunista: la bieca ignoranza delle autorità persecutrici e i miserabili capi che compongono gli ingranaggi crudeli della “dittatura del proletariato”, tanto invocata dai comunisti e i loro sostenitori.
Conscio di non essere un critico letterario, ma allo stesso tempo avendo vissuto il terrore comunista, consiglio la lettura per il valore storico e testimoniale di questo libro.
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